Adriana Follieri: piccola autobiografia critica

Adriana Follieri: piccola autobiografia critica

Partiamo da questo: sono passati ormai diversi mesi da quando le donne della cooperativa En Kai Pan mi hanno invitata a comporre un piccolo autoritratto scritto, e pur tenendo bene in mente e sull’agenda il promemoria dell’impegno piacevolmente preso, ho finora svicolato dando priorità ad altro.

Non che mi sia persa nell’esercizio del descrivermi, piuttosto ho rischiato di perdere l’esercizio stesso, concedendo gli straordinari ancora una volta al multiforme lavoro di cui sono artefice e dipendente, ovvero causa ed effetto, anche collaterale. Essendo abituata ad onorare le scadenze, osservo questo ritardo come uno specchio di quanto mi accade con fin troppa naturalezza: lavoro per tre e non resta molto tempo per me. Così, nell’assoluta casualità di questa constatazione, scopro la risposta al tema che En Kai Pan sta indagando, “donne e impresa teatrale”, tema che mi riguarda da vicino e che è anche il pretesto di questa piccola autobiografia critica.

Sono regista, autrice, attrice e formatrice teatrale, fondatrice e co-direttrice artistica insieme a Davide Scognamiglio (fotografo e light designer) di Manovalanza, Associazione di promozione sociale, luogo interiore stabile di ricerca, creazione e produzione artistica.

Manovalanza è il contenitore e al tempo stesso il motore propulsivo del mio lavoro, in equilibrio e dialogo tra diverse arti: teatro, musica, performance, fotografia, installazione urbana; ma soprattutto è il progetto che mi ha permesso di spostare l’attenzione professionale dalla mia singola persona ad un concetto più ampio di comunità d’arte.

Mi sono affacciata al teatro e ai linguaggi della scena molto presto, casualmente, eppure con grande serietà, cominciando ad appena nove anni un percorso che non ha mai avuto battute d’arresto, trasformandosi e arricchendosi di incontri straordinari, rendendomi molto presto una donnina di palcoscenico, e donandomi al tempo stesso una sorta di fanciullezza eterna.

Sono una donna giovane, almeno per i parametri di questo paese, eppure ho maturato quasi trent’anni di esperienza nel campo del teatro e dello spettacolo dal vivo, in Italia e in Europa, condividendo esperienze importanti con colleghi e compagni di scena quasi sempre più adulti di me, a cui sono grata per gli anni della formazione e per gli insegnamenti, soprattutto quelli indiretti, passati attraverso la condivisione di progetti e visioni; grata soprattutto per la generosità, rara ma copiosa nei casi in cui si manifesta, che ho imparato a riconoscere ad occhi chiusi, e che nelle sue forme più pure è arrivata a me da donne speciali.

Innamorata del teatro in tutte le sue declinazioni, ho studiato e praticato per molti anni il mestiere di attrice, conquistando poi uno spazio di libertà che mi ha permesso di passare dalla posizione di scritturata a quella di artista scritturante, scegliendo e selezionando con cura ancora maggiore i progetti a cui partecipare e quelli da edificare, partendo spesso da una piccola intuizione condivisa e poi nutrita con cura per farla diventare opera compiuta.

Sono fortunata, ché pochi inciampi mi sono toccati in sorte, e quasi sempre inciampando ho potuto scorgere su un piano diverso qualcosa di prezioso che altrimenti sarebbe sfuggito alla mia vista: ho potuto imparare a riconoscere il teatro dove non ce lo si aspetta, e a disconoscerlo talvolta lì dove dovrebbe risiedere di diritto; a differenziare soprattutto il contenuto dal contenitore, la routine dal miracolo, “i felici pochi” dagli “infelici molti”.

Dalla fondazione di Manovalanza nel 2009 mi occupo prevalentemente di regia, curando l’ideazione e la messa in scena di progetti artistici performativi complessi, in relazione ai territori e alle comunità, in luoghi e contesti non convenzionali e con allestimenti site-specific. Questa trasversalità, la capacità di attivare processi artistici dove naturalmente non esisterebbero, è probabilmente quella che mi riconosco come maggiore virtù: onorare il teatro attraverso la restituzione e traduzione del suo rito laico, aprendo nuove strade, facendomi artefice e viatico di nuove comunità artistiche, strumento io stessa del teatro, per contribuire alla costruzione di mondi ideali proprio attraverso la relazione con il reale, e mai in un processo che ne assecondi le dinamiche e le presunte certezze.

Occupandomi di molti aspetti all’interno di uno stesso settore, mi ritengo un buon esempio di multidisciplinarietà competente; in un tempo in cui si privilegiano l’iper specializzazione e i tecnicismi (anche a costo di provocare divisioni professionali e distanze relazionali in nome di visioni gerarchiche), io difendo l’artigianato del teatro, secondo un modello organizzativo chiaro ma aperto, di matrice quasi circense, anacronistico e poetico, in cui ciascuno attraversa la partecipazione a tutte le fasi del processo creativo e la condivisione di obiettivi e risultati.

Lavoro in squadra, con persone e professionisti eccellenti, capaci di curare al meglio gli aspetti che riguardano il proprio ambito, eppure ciascuno esercita il diritto alla visione totale, e nelle pratiche quotidiane mi occupo anche di progettazione, comunicazione, direzione artistica, gestione e sviluppo delle risorse umane e dei gruppi di lavoro.

Mi scopro ad aver scelto per la mia vita un lavoro bello e difficile, provando a farlo nel modo forse più bello e più difficile, là dove le strade da percorrere non sono ancora disegnate. In un’Italia sempre più assuefatta alla schematizzazione e alla semplificazione, esprimere la poliedricità di un percorso come il mio richiede il dover fare i conti – non tanto nel rapporto con il pubblico, che spesso è attento e preparato, ma nel dialogo con alcuni addetti ai lavori abituati a ripercorrere prevalentemente strade già consolidate – con il dilemma della definizione e della nomenclatura, pur recalcitrante come sono alla riduzione ai minimi termini della ricchezza di linguaggi e codici espressivi, del dialogo tra le diverse arti, del teatro che può contenerle tutte.

Mi definisco teatrante tout court, e alcuni dei miei progetti vengono definiti di “teatro sociale e di comunità”, come se potesse esistere un teatro antisociale e non comunitario. Non sono figlia d’arte, anche se l’arte ha molti figli illegittimi e so riconoscere nei miei antenati i miei primi maestri. Sono contro ogni tipo di discriminazione, prevaricazione, violenza e ingiustizia sociale, quindi penso, agisco e lavoro da artista indipendente, affinché cadano tutte le barriere, anche le mie.

Occorrerebbe certamente un’analisi più ampia di quella consentita da questa piccola narrazione, ma mi pare che accendere una luce, anche piccola, su una prassi eccezionale che condivido con molte colleghe e che rischia di passare per normalità sia prezioso: siamo trasversali e multitasking e valorizziamo poco questa capacità, colpevolizzandoci talvolta per il tempo sottratto alla vita privata, aggiungendo al carico anche la responsabilità della mancata delega; ché anche quando si riesce a spostare da sé “la responsabilità per l’assunzione di responsabilità”, si tende in maniera generica ad accusare il contesto in cui ci troviamo ad agire, recapitando a questo sud Italia (che poco e male dialoga con mamma Europa) il nostro credito di tempo e denaro e il carico mentale che ne deriva; peccato che a quell’indirizzo nessuno risponda, e che il nostro credito resti insoluto lasciando che la professionalità si confonda con il sacrificio.

Non svelo alcun mistero sottolineando la disparità di trattamento tra uomini e donne, dunque non dico niente di nuovo se racconto che anche la mia storia si barcamena tra queste prevedibili e radicate disparità: nei compensi economici, nella possibilità di occupare ruoli decisionali e di potere, e così via, e ci vorrà tempo, lavoro e attenzione perché si interrompa questa narrazione patriarcale vetusta e dannosa che vede le donne “naturalmente” impiegate in occupazioni di accudimento e cura, sia sul piano domestico che su quello professionale.

Verrebbe da abilitare il diritto alla sfiducia, invece amo ribaltare la visione, lavorando in squadre numerose fatte da uomini e donne, persone vive e con sguardo lungo, e mi incanto ogni volta di fronte all’operosità e alle intelligenze messe al servizio di un progetto comune.

Imparo così ad esercitare un distacco emotivo sul futile, sull’effimero, e ad allenare il mio sguardo di calamita sul potere dell’inatteso, sul valore dell’interdipendenza pratica e dell’autonomia poetica, sulla forza e sul ritmo che il teatro manifesta nella sua poesia, ma anche nella vita mia.

Con questa fiducia potenziata e ripotenziata, mi piace dunque pensare che le azioni disseminate sapranno moltiplicarsi, e che molte nuove isole nasceranno, dove ce le aspettiamo e dove ancora non le immaginiamo.

Uno spettacolo teatrale permette di trasformare le parole su una vita migliore in un’esperienza diretta e in questo può diventare un potente antidoto contro la disperazione.

Peter Brook

Adriana Follieri

regista, autrice, attrice e formatrice teatrale

*foto in evidenza di Davide Scognamiglio 

Maggio 2021, progetto Donne e impresa teatrale in Campania