In conversazione con Alessandra Asuni

In conversazione con Alessandra Asuni

Raccontaci la tua storia professionale, il modo in cui hai scelto la tua professione in teatro.

Ho avuto attrazione per il teatro all’incirca dall’età di tredici anni e appena mi è stato possibile ho iniziato a frequentare la scuola di recitazione del Teatro Akroama a Cagliari, sono riuscita a entrare scrivendo che ero maggiorenne, ma avevo solo sedici anni. Ho iniziato così a lavorare con loro e alla prima possibilità di fare uno spettacolo hanno scoperto che ero minorenne, per fortuna mi è andata bene e mi hanno permesso di continuare gli studi. Sono stati anni di formazione importanti, era un gruppo di artisti che aveva le sue radici nel teatro di Eugenio Barba, avevano fatto esperienza con lui, avevano visto il Living Theatre nelle strade della Sardegna, insomma avevano vissuto gli anni di fermento e sperimentazione dell’avanguardia teatrale. Grazie a loro sono stata invogliata a conoscere di più e ad approfondire i miei studi e ho così incontrato persone che sono diventate importanti e che riconosco come maestri. Tra questi vorrei citare Claudio Morganti che venne una volta in Sardegna a fare un piccolo laboratorio che per me è stato decisivo, avevo appena diciassette anni e balbettavo tantissimo e grazie al lavoro con lui ho cominciato a lavorare sulle mie difficoltà e a perdere la balbuzie. All’inizio avevo paura di non riuscire a dire le battute, di non riuscire a fare un laboratorio per la timidezza, inoltre più balbettavo più non volevo mostrarmi. Claudio Morganti è stato per me un esempio fondamentale, mi ha aiutato cambiando le parole che non riuscivo a pronunciare e facendomi capire che un testo non è intoccabile e che in certi casi può essere adattato alle esigenze degli attori, questo insegnamento l’ho portato con me negli anni, tanto da diventare autrice anche dei miei lavori, autrice e attrice; mi ha insegnato a non stare mai ferma, a proporre sempre qualcosa che non fosse soltanto “il compito della scritturata” e quindi a non essere una regista molto direttiva e che non offre tante possibilità agli interpreti.

Poi a 23 anni mi sono trasferita a Parigi con la voglia di incontrare Peter Brook e i suoi attori, non ho lavorato con lui, però ho avuto il piacere di  incontrare due dei suoi artisti Jean Paul Denizon e Tapa Sudana. È stato un periodo molto importante e faticoso, non avevo molti soldi e dovevo arrangiarmi come potevo, con piccoli lavori per mantenermi, visto che i miei genitori non erano nelle condizioni di aiutarmi, umanamente mi sono formata tanto e molti degli insegnamenti che ho ricevuto all’epoca li utilizzo ancora nel lavoro pedagogico e teatrale di oggi. 

Quando sono poi tornata in Sardegna ho avuto la possibilità di incontrare per un anno intero Rena Mirecka, perché frequentavo i suoi laboratori che teneva in un ex mattatoio, dove viveva, e perché spesso era ospite al Teatro delle Saline, gestito dalla compagnia del Teatro Akroama. Già iniziavo a notare la differenza in una una donna, formatasi nel gruppo di Grotowski dove aveva inventato gli esercizi plastici e che non faceva più teatro, ma parateatro, cioè insegnava agli attori ad avere un’anima, una sacralità, la sacralità del gesto e del movimento. Avevo così da una parte l’insegnamento di Peter Brook che diceva “se fai teatro è perché ti diverti”, dall’altra l’esempio di un teatro meno divertente, ma più introspettivo. Questi due fronti sembravano inconciliabili, eppure messi una volta insieme ti muovono, accendono dei motori all’interno dell’anima e ti portano a percepire e a scoprire nuove cose

E poi ci sono stati gli incontri importanti come attrice, ad esempio quello con Cristina Pezzoli. Cristina purtroppo è morta lo scorso anno (2020) e per me resta una delle registe che ha più segnato il teatro in Italia. Per molti anni è stata assistente di Massimo Castri e il lavoro che faceva con gli attori era incredibile e profondo, incentrato sulle relazioni e su un dialogo vero. Un’esperienza simile l’avevo già vissuta con gli attori di Peter Brook, il fatto di non lavorare soli, di non essere individualisti, ma di cercare sempre l’altro, domandarsi cosa succede nell’altro con cui condivido un’esperienza: anche se la battuta scritta era identica a quella del giorno prima, nell’altro stava succedendo qualcosa, il suo stato vitale era diverso e quindi era necessario interrogarsi sempre in che modo poter incontrare quella nuova persona.

Col tempo, Cristina mi ha fatto venire una gran voglia di cimentarmi come regista in prima persona, per me è stata un grande esempio di emancipazione, vedendo i suoi lavori viene voglia di non arrenderti e portare avanti la tua visione. Fino a quel momento avevo incontrato soltanto registi uomini e la differenza, sembrerà banale, era sempre nel rapporto che si aveva con loro, nel senso che c’era sempre la seduzione di mezzo. Con Cristina non c’era nessun tipo di seduzione, né da parte degli attori e né da parte delle attrici, il linguaggio seduttivo ci costringe ed è invadente, è fastidioso e limita anche proprio la libertà espressiva. Cristina mi ha dato un bellissimo esempio e da lì sono nati i miei primi lavori da regista e poi autrice e regista.

In che cosa consiste il tuo attuale lavoro con riferimento, se vuoi, a uno o più progetti in particolare?

Dal 2010, nel mio lavoro teatrale, porto avanti una ricerca antropologica che nasce dalla malinconia di non essere “a casa, nella mia terra, ormai vivo a Napoli da diciassette anni e prima di approdare qui già avevo lasciato la Sardegna da tempo. Da questa ferita che mi porto dentro comincio a studiare, nascono dei riti con poche persone che poi si sono trasformati in una trilogia che esplora il ciclo “morte/vita/rinascita”: si inizia con Accabbai, un lavoro femminile sulla figura dell’accabadora, poi si passa a Matrici in cui si parla di libertà di scelta riguardo al parto, e si conclude con Sabi che è un lavoro sulle guaritrici sarde, perché in Sardegna ancora ci sono circa quattrocento guaritrici, sparse per il territorio. Li chiamo riti perché coinvolgono un ristretto numero di persone e ogni volta che li porto in scena capita qualcosa di importante tra me e gli spettatori/partecipanti, viviamo un’esperienza comune e alla fine ognuno di noi ne esce diverso.

La ricerca antropologica, l’approfondimento e il desiderio di sapere di più delle mie radici ha influenzato la mia linea artistica, per me la ricerca è fondamentale e lo spettacolo diventa secondario. Questa linea di studio è poi confluita nell’ultimo spettacolo prodotto nel 2019, La stanza segreta, in cui racconto la mia storia, il mio rapporto con il sacro: da quando sono bambina a quando cresco, con dei riferimenti a una donna del Sud, Giuseppina Gonnella, una donna che faceva i miracoli, che predicava e che è stata uccisa negli anni Settanta durante una di queste prediche. Io nasco negli anni Settanta e lei muore nel giorno in cui a me capita un evento che ha segnato la mia vita, una coincidenza che vede me diventare balbuziente e lei perdere per sempre la parola.

L’altra strada che attraversa il mio lavoro è quella della formazione e della pedagogia teatrale. Ho incontrato tantissime persone in questi anni, sono stata per un lungo periodo a Forcella, lavorando con Marina Rippa e le donne di quel quartiere, un’esperienza per me fondamentale. Al contempo frequentavo anche le scuole con i PON e incontravo tantissimi ragazzi e poi c’è stata l’esperienza con i detenuti di Poggioreale. Tutto ciò mi ha fatto rendere conto di quanto sia importante e necessario l’incontro con le persone, e quanto l’esperienza umana mista alla tecnica della pedagogia teatrale sprigioni una consapevolezza del sé, del proprio corpo e della relazione con gli altri. Il mio lavoro non è mai individuale, c’è alla sua base sempre un grande dialogo.

Infine non posso non citare Arrevuoto, un’esperienza molto particolare, purtroppo al momento ferma da due anni, che mi ha dato l’opportunità di lavorare con un gruppo di ragazzi, non da sola, ma fianco a fianco con un altro regista, un approccio un po’ diverso dal mio solito che ha permesso nuove forme di dialogo.

Quanto ha influito nella scelta della tua professione il tuo essere donna, ci sono stati degli ostacoli o dei momenti in cui è sembrato essere un problema?

Gli ostacoli ci sono tutt’oggi, perché nel momento in cui presenti da regista un progetto al Teatro Nazionale e chiedi determinate condizioni, ti rendi conto che non c’è assolutamente la stessa opportunità che hanno i registi. Purtroppo è un problema di emancipazione maschile, nel senso che fin quando non ci saranno direttori emancipati in questo senso, direttori artistici lungimiranti che intendano puntare sulle donne – parlo anche della scrittura, della drammaturgia in scena – rischiare sui testi delle donne che raccontano in una maniera completamente diversa da quella maschile, perché è una visione altra, avendo un approccio verso la vita che è differente, non sarà mai possibile parlare di parità di genere. È inevitabile che uno spettacolo di Shakespeare sia diverso se fatto da un regista o da una regista, cambierà la visione dei personaggi femminili e ovviamente la visione d’insieme. Mi farebbe piacere pensare che mia figlia, o qualsiasi altra donna, possa andare a vedere un lavoro e riesca a identificarsi nella differenza della visione, non più filtrata da uno sguardo maschile.

Questa possibilità già da molti anni non c’è. Probabilmente un tempo si scriveva di più per delle protagoniste femminili, quindi si portava in scena un lavoro un po’ più approfondito, ma adesso veramente è il deserto. La questione è stata messa in evidenza su più fronti, il critico Alessandro Toppi, per esempio, nel 2019 ha segnalato nel suo articolo Numeri e “contronumeri” sul Teatro Stabile di Napoli che con la direzione di Luca De Fusco, in otto anni di programmazione, appena il 7% delle stagioni ha visto registe o giovani registi, mentre nella stagione 2019/2020 la proposta del Nazionale non presentava neanche una sola donna. Quello che si chiede è l’opportunità, la stessa opportunità che hanno i colleghi uomini e non mi si venga a dire che è una questione di merito, purtroppo non è così, perché sono certa che le donne non siano inferiori agli uomini per creatività o meno brave, e perché se io ragazza voglio fare la regista e vado a teatro e vedo soltanto uomini, molti più uomini che donne, già dentro di me faccio un passo indietro, perché capisco che sarà difficile andare avanti, soprattutto al sud, dove la situazione è ancora più dura, mi dispiace dirlo, ma è così, siamo indietro, ancora troppo indietro. 

E quindi pubblicamente dico a Roberto Andò, al nuovo direttore del Teatro Nazionale di Napoli: “rischia. Bisogna rischiare, non dobbiamo essere sempre noi donne a chiedere, per una volta ci dovrebbe essere qualcuno che si domanda “Chi sono le registe?”, “Chi sono le scrittrici?” e “Chi sono le drammaturghe?”, fare un bell’elenco e dire “Adesso proviamoci!. Perché il cambio di direzione non ci sarà mai aspettando la quota rosa e io questa problematica la vivo così intensamente che molti dei miei lavori da dieci attori sono diventati per un attore, dalla grande scena sono passata a uno spazio quasi vuoto, nel senso che alla fine ci sentiamo anche costrette a rimpicciolire la nostra visione per poter proporre qualcosa e non ricevere un rifiuto perché troppo costoso, magari sono lavori che vanno bene comunque ma non è quello che avevamo pensato inizialmente.

Se un teatro nazionale prendesse una posizione decisa sul fatto di dare spazio a più registe e drammaturghe, ovviamente la risonanza sarebbe ancora maggiore e inoltre offrirebbe una visione artistica più completa. Se pensiamo al numero di artiste e allo spazio che viene loro concesso ci si rende conto che viene scartata una parte sostanziale della visione artistica globale. E allora mi chiedo come mai chi diventa direttore di un teatro di importanza nazionale non voglia essere il primo a cambiare questa rotta e a tener conto anche delle direttive europee sull’inclusione delle donne? 

Anche perché poi le artiste ci sono, sono tante le drammaturghe, sono tante le registe, sono tante le artiste che cominciano come attrici e poi scelgono un altro percorso. E viene da chiedersi perché in molte comincino sempre così? Non per disdegnare la professione dell’attore, però evidentemente a volte non è vocazione, ma l’unico modo di accedere alle professioni teatrali per una donna.

La professione dell’attore è molto difficile e complessa, ci vogliono veramente tanti anni di formazione e di esperienze per trasformarla nel proprio lavoro. Alle volte succede che però non basti più e si cercano nuovi modi di esprimere la propria creatività e la propria visione e questa possibilità bisogna averla. Quando sono arrivata a Napoli, sono sempre state le donne ad avvicinarsi a me, a darmi una prima opportunità e a lavorare con me, in passato Marina Rippa, in questo momento Annalisa D’Amato, una regista e drammaturga napoletana che ha vissuto poi tanti anni a Parigi e che sta insegnando al Bellini, o Maria D’Ambrosio, una professoressa eccezionale che mi invita spesso e mi include nei progetti. Penso sia uno degli aspetti del femminile riconoscersi nella sensibilità e poi trovarsi. Anche se non posso non citare tra coloro che mi hanno accolto e dato una possibilità Teatri 35 con Antonella Parrella e Francesco De Santis e il Teatro Civico 14 di Caserta. Napoli non è una città facile per gli artisti, soprattutto se donne, chiediamo soltanto le stesse opportunità, anzi chiediamo le stesse difficoltà.

E vorrei aggiungere un’ultima cosa, relativa alla professione dell’attrice: quando nel 2007 mi sono trovata a fare la mia ultima tournée come scritturata per il Mercadante, con la Maria Stuarda per la regia di Andrea De Rosa e siamo stati in giro per tutta Italia, mia figlia aveva appena tre anni e non sono riuscita a far capire che anche la condizione economica non andava bene. Avrei avuto bisogno di una baby sitter per quasi tutto il tempo della tournée, da questo punto di vista non c’è attenzione verso la maternità. Per me è stato un periodo complessissimo, economicamente quasi nullo, perché poi ho dovuto spendere tanto per riuscire a organizzarmi con mia figlia. Per questo ho smesso di fare la scritturata, per poter gestire il mio tempo in autonomia, facendo l’imprenditrice di me stessa, rischiando come qualsiasi altro imprenditore. Quell’ostacolo ha cambiato il mio modo di lavorare, facendomi scegliere una strada artistica che mi segnasse e che fosse per me necessaria.

L'intervista è stata realizzata da Stefania Bruno e Loredana Stendardo nel mese di maggio 2021 nell'ambito del progetto "Donne e impresa teatrale in Campania"

Guarda il video promo dell’intervista QUI