In conversazione con Marzia D’Alesio

In conversazione con Marzia D’Alesio

Raccontaci la tua storia professionale, il modo in cui hai scelto la tua professione in teatro e in che cosa consiste il tuo attuale lavoro, con riferimento, se vuoi, a uno o più progetti in particolare?

La mia storia professionale è legata significativamente al teatro e mi ritengo una persona fortunata per gli incontri che ho avuto e per il lavoro che faccio. Il teatro è da sempre una grande passione, nata da una condivisione con altre donne, in principio con mia nonna: andavo sempre con lei a teatro, avevamo gli abbonamenti prima al Bellini e poi al Mercadante. Quando ho poi frequentato l’università ho scelto tutti gli esami dedicati a questa disciplina, in linea con una passione che era sempre più forte. Prima che mi laureassi, ho poi cominciato a lavorare al Teatro Nuovo, diretto da Igina Di Napoli, grazie a Monica Nappo, attrice e regista cui sono legata da un sincero affetto. Ho iniziato a lavorare in particolare sulla distribuzione degli spettacoli, sulla loro promozione in tournée e, devo dire la verità, per me è stata un’esperienza bellissima. Ricordo ancora quando ho fatto il colloquio con Igina di Napoli, una donna di grande personalità, cui sono particolarmente grata perché mi ha insegnato tanto, che  mi ha coinvolta sin da subito nel lavoro, affidandomi responsabilità e con la quale ho avuto un bel confronto generazionale. 

Sono stata fortunata anche a iniziare con una stagione particolarmente felice, ricca di progetti importanti. In quegli anni, quel luogo nei Quartieri Spagnoli ha significato moltissimo per la città di Napoli, per la ricerca, per la spinta in avanti. Ricordo Antonio Latella che lavorava ai i suoi primi Genet e poi Pasolini, Arturo Cirillo che ha fatto il suo Scarpetta, poi Ruccello che ha girato molto. In particolare, uno degli spettacoli che ha prodotto il teatro in quella stagione è stato 4.48 Psychosis di Sarah Kane, con Monica Nappo e per la regia di Pierpaolo Sepe. Mi piace molto parlare di questo spettacolo che ho avuto la fortuna di “abitare”. In quel momento di vent’anni fa, Sarah Kane era morta da poco, era un testo che non era mai stato messo in scena in Italia, e Napoli, anche senza mezzi faraonici, ricopriva il ruolo di una città in forte fermento. Abbiamo avuto l’opportunità di fare qualcosa di veramente coraggioso per il pubblico, per la città, quel testo era un grande flusso di coscienza amarissimo, se si pensa poi al suicidio della giovane drammaturga. Mi piace molto pensare a questo spettacolo come un punto importante per il mio inizio, con un’attenzione al genere e alle autrici.

Sicuramente gli anni al Teatro Nuovo con Igina Di Napoli sono stati intensi, caratterizzati da una dimensione di gruppo, di lavoro collettivo. Affrontavamo la sfida di portare autori e registi non sempre noti, di scoprire nuovi talenti; erano anni di grande confronto in cui era importante fare rete con gli altri teatri, sia istituzioni stabili, che spazi di innovazione, organizzando anche tante tournée.

Poi nel 2005, alla fondazione del teatro pubblico – il Mercadante – riconosciuto Teatro Stabile poco dopo, ho avuto l’opportunità di cominciare a lavorare nell’ufficio produzione. Mettersi al servizio del pubblico, quindi della città e della comunità, è stata per me una grande soddisfazione ed è stimolo costante, il fine è quello di far bene, con umiltà, di essere una pedina nell’ingranaggio e concorrere al servizio pubblico. Da poco sono responsabile dell’ufficio produzione e programmazione, ho avuto la fortuna e la possibilità di poter crescere nella struttura in cui lavoro, il che non è scontato. Si tratta di un lavoro collettivo, basato sulle relazioni e sul dialogo con professionalità molto diverse. In sintesi, consiste in un lavoro di organizzazione, nel fare da anello con tutti i processi creativi, sia della produzione che della programmazione di spettacoli. È un lavoro che richiede molta concretezza e altrettanta sensibilità. Quello che mi stimola è la possibilità di dare gambe alle idee, di concorrere alla concretizzazione dei processi creativi con tutte le mediazioni del caso, dallo studio della normativa al fare i conti con il budget; nel momento in cui parte una produzione c’è poi tutta una parte relativa al personale, al rapporto con i registi, la composizione di un cast e di collaboratori artistici, la messa in opera delle scenografie, dei costumi, fino ad arrivare alla tournée, all’incontro con gli altri teatri. Oggi il teatro è diretto da Roberto Andò, il direttore operativo è Mimmo Basso, che è la persona con cui io lavoro più a stretto contatto. Attualmente stiamo attraversando un momento molto difficile per la pandemia, ma anche molto importante per la progettualità del teatro. Abbiamo molta voglia di fare, speriamo di riaprire presto i teatri e di fare belle cose.

In che modo essere donna ha influenzato il tuo percorso formativo e  professionale? In che modo tutto questo ha influenzato il tuo punto di vista attuale sul teatro e la tua professione?

La riflessione sul femminile e sull’essere donna accompagna costantemente il mio abitare il mondo del teatro e il mondo del lavoro. Sono figlia di una mamma che negli anni ’70 ha fatto la sua rivoluzione femminista e che nel suo lavoro alla Biblioteca Nazionale, insieme ad altre donne, ha costituito il Fondo Soggettività Femminile. Mia nonna era una pasionaria, comunista di ferro, e io sono cresciuta con questi temi. Coltivo molto il femminile nella mia vita, le amiche, il dialogo, il confronto, esperienze che ti aiutano moltissimo anche a essere quel tipo di donna che vuoi essere. Non la virago prepotente, ma una donna emancipata, accogliente e in ascolto.

A lavoro, poi, mi sono ritrovata in un ufficio tutto al femminile, siamo cinque donne e nel nostro quotidiano il nostro essere donna è molto importante e prezioso, perché è alla base di un principio di relazione e di solidarietà. Io credo molto in questo, credo molto anche nel rispetto e nella rete che le donne possono costruire fra di loro. Non sono cose astratte, sono principi molto concreti che significano essere attenti a un privato pur essendo discreti, non necessariamente conoscendolo, ma immettendolo nel tessuto del quotidiano, facendo in modo che non sia mai un limite per la persona che lavora, creando una solidarietà. 

L’incontro con altre donne ha significato molto per me e per il mio lavoro, stimolando continuamente la riflessione sul femminile. Mi piace ricordare che il teatro Mercadante ha avuto come direttrice una donna, Roberta Carlotto che ha dato il via al progetto Arrevuoto, curato oggi da Maurizio Braucci con il Teatro delle Albe, da Marco Martinelli alle origini. Un progetto molto significativo in cui emergeva la voglia in quel momento di fare qualcosa per Scampia, contro la faida. Con Carlotto è stato molto bello lavorare proprio su un’idea di teatro che entra nella società – il che rientra nella funzione di un teatro pubblico – di come porsi nel mondo rispetto ai problemi esistenti, ed è stato anche un grande progetto di rete che ha messo insieme anime diverse della società, il mondo della pedagogia, delle associazioni e delle cooperative, il mondo di teatranti sensibili alle tematiche sociali e il mondo della scuola. 

Nel corso del mio lavoro ho incontrato anche Valeria Parrella, oggi una carissima amica, una donna che si batte moltissimo per il femminile e che ho conosciuto in occasione del progetto Io, Clitemnestra, il verdetto, realizzato a Ridotto del Mercadante in sodalizio con Cristina Donadio, e con la quale ho lavorato anche ad altri progetti, in cui ha affrontato la questione di genere con profondità e coraggio. 

C’è stato un progetto molto bello dedicato ad Anna Maria Ortese che ho seguito con altre amiche e compagne di viaggi e avventure, Alessandra Cutolo e Antonella Monetti, due donne che ho conosciuto per il loro lavoro nelle carceri. Avevano fondato la compagnia “I liberanti” composta da detenuti ed ex detenuti, e provenivano da diverse esperienze di teatro sociale. E mi piace anche ricordare la bella esperienza che abbiamo fatto per alcuni anni con Alina Narciso e altre compagne di viaggio come Natascia Festa e la stessa Valeria Parrella con La Scrittura della differenza-Biennale di drammaturgia femminile che ha rappresentato un terreno fertile di scambio di visioni e opinioni su questi temi cari. Questo è un po’ un mio mondo di affetti e di donne di cui mi piace parlare.

C’è stato un momento in cui essere donna è sembrato un problema nello svolgimento della tua professione?

Io personalmente non ho mai avuto particolari problemi con il mio lavoro in relazione al mio essere donna, anzi è sempre stata una grande risorsa per me. In ogni caso, anche se non riguarda me in prima persona, penso ci sia un grosso un problema di accessibilità per le donne in tutti i possibili mestieri del teatro, forse dove si avverte più la mancanza è proprio nel settore creativo, ci sono ancora poche registe donne, i cartelloni non sono così bilanciati e, per quanto ci siano importanti cambiamenti, c’è ancora molto da fare da questo punto di vista. L’accessibilità alle professioni è comunque un problema generale, non specifico del teatro, è un problema culturale innanzitutto e non normativo, l’arretratezza risiede nel voler affidare alla donna ancora quel ruolo di curatela della famiglia che non tutela il tempo da dedicare a una progettazione personale. C’è ancora la mentalità diffusa secondo cui il tempo che l’uomo dedica a un progetto è scontato, è naturale, il tempo che la donna dedica al suo progetto non è parimenti scontato. Ed è ciò su cui dobbiamo tutti lavorare.

L'intervista è stata realizzata da Stefania Bruno e Loredana Stendardo nel mese di gennaio 2021 nell'ambito del progetto "Donne e impresa teatrale in Campania"

Guarda il video promo dell’intervista QUI